La via per la Terra di mezzo di TOM SHIPPEY

RECENSIONE DI CLAUDIO A. TESTI A:

TOM SHIPPEY, La Via per la Terra di mezzo, Marietti 1820, Milano 2005

 

A livello di critica tolkienana Shippey è unanimemente considerato tra gli studiosi più accreditati, e questo suo volume è sempre citato come testo fondamentale per comprendere la profondità e la complessità dell’opera di Tolkien.  In particolare, Shippey ha il merito di avere messo in luce come nessun altro il legame tra letteratura, linguaggio e filologia. Commentando un articolo di Tolkien, Shippey afferma:

 

«Lo stesso articolo mette in chiaro come egli ritenesse sia l’approccio ‘linguistico’ sia quello ‘letterario’ troppo ristretti per fornire una risposta completa nei confronti delle opere d’arte, specialmente di quelle più antiche. Inoltre, ciò che occorreva non era tanto un insipido compromesso tra i due settori (quello che di solito riesce a fornire la maggior parte degli istituti di anglistica) ma qualcosa che si trovasse, per così dire, ‘ad angolo retto’ rispetto ad entrambi. Questa terza dimensione era quella ‘filologica’ e, proprio da essa, egli si esercitava ad osservare le cose e scriveva le sue opere di narrativa. La ‘filologia’ è infatti l’unica guida appropriata ad un’osservazione della Terra di Mezzo ‘nel modo […] che presumibilmente l’autore avrebbe desiderato’. Non è però colpa di Tolkien se, negli ultimi cento anni, la ‘filologia’, come termine e come disciplina, si è ingarbugliata in maniera ancora peggiore della ‘letteratura inglese’» [p. 5]

 

Per Tolkien, infatti, la filologia è una disciplina che unisce sia lo studio della lingua che della letteratura e che da un linguaggio e da un racconto risale all’esistenza di popoli e avventure ormai perdute. In altri termini, come dallo studio del gotico la filologia riuscì a gettare nuova luce sulla storia di queste genti [cap 1], così Tolkien scoprì la storia della terra di mezzo proprio a partire dai linguaggi elfici o da parole misteriose come “Hobbit”[ Lettere n. 165 e n. 163]. Gran parte dell’opera di Shippey è proprio dedicata alla comprensione di questa enigmatica posizione, che Tolkien ribadì sempre e con insistenza per tutte le sue opere:

 

«Ad esempio, tornando all’animosità suscitata dal Signore degli Anelli, colpisce il fatto che (a parte il successo stesso dei libri) la cosa che più irritò i recensori fu l’ostinata insistenza dell’autore nel parlare di linguaggi come se potessero essere oggetto d’interesse: “L’invenzione delle lingue è alla base di tutto”, aveva detto Tolkien; “Sono le ‘storie’ ad essere state scritte per fornire un mondo ai linguaggi, non il contrario” (Lettere, n. 165).

 

Qui innanzitutto Tolkien asserisce una priorità della lingua sulla “storia”. Secondariamente, ammette che tale lingua e di conseguenza le storie che si nascondo dietro a un linguaggio, non sono “inventate” ma bensì scoperte, quasi fossero un qualcosa che non deve la sua esistenza al soggetto che le “costruisce”:

 

«Da molto tempo ho smesso di inventare (benché sia i critici favorevoli che quelli sfavorevoli lodino la mia ‘inventiva’)» (Lettere n. 180 )

«Ho sempre avuto la sensazione di registrare qualcosa che c’era già, da qualche parte: non di inventare» (ibid. n.. 131)

 

Il fatto che per Tolkien in qualche modo le storie narrate pre-esistono in qualche altrove, potrebbe far pensare a un “neo-platonismo” tolkieniano. Tuttavia, quest’analisi apparentemente scontata, è tuttavia parziale, specie se si tiene conto di quanto egli dice sulla verità delle fiabe:

 

«Il mito e la fiaba devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi insieme elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma conosciuta nel mondo ‘reale’ primario. […] Dopo tutto io credo che i miti e le leggende siano in gran parte fatti di ‘verità’, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere recepiti solamente sotto questa forma; e certe verità furono scoperte molto tempo fa e ritornano sempre» (Lettere  n.131)

 

Proprio il valore positivo e “aletico” di cui i racconti sono portatori allontano Tolkien dalla critica posizione platonica (che vede nell’arte in genere l’imitazione di un’imitazione delle Idee) per avvicinarlo notevolmente alla prospettiva aristotelico-tomista che, grazie al concetto di verosimiglianza, garantisce alla “letteratura” un ruolo fondamentale all’interno della stessa ricerca della verità [Aristotele, Poetica, 1451b 1-10; Tommaso d’Aquino, In I Metaph. lez. iii n. 4]:

 

Alla luce di tutto questo, la letteratura, la poesia e le stesse fiabe, risultano essere una cosa estremamente seria e “filosofica”. Le fiabe, che Tolkien  scopre a partire dalle lingue (come magistralmente ci fa capire Shippey), fanno infatti entrare il lettore in un mondo immaginario (o secondario, come lo chiama Tolkien per distinguerlo dal mondo “reale” o primario) che è tuttavia partecipe della verità del mondo primario, essendo verosimile e credibile. Da questa prospettiva, filosofia e letteratura arrivano davvero a toccarsi: il loro oggetto di “indagine” è infatti il medesimo, ovvero il “nostro” mondo, con i suoi misteri da comprendere e le sue profondità da scandagliare. La diversità delle due discipline verte invece sul metodo: la filosofia ricerca le cause e i principi ultimi degli enti, mentre la letteratura “sub-crea” storie verosimili che per la loro universalità mostrano al lettore tanti aspetti e sfumature del mondo primario nel quale quotidianamente viviamo e abitiamo.

   In quest’ottica la pubblicazione del testo di Shippey diventa anche una testimonianza “concreta” della vicinanza che esiste tra il letterario e il filosofico, che troppo spesso vengono erroneamente pensati come estranei e separati, con grave danno e reciproco impoverimento di entrambi gli ambiti.