Tolkien and Philosphy, a cura di Roberto Arduini e Claudio A. Testi. Walking Tree Publishers, Zurigo, 2014. 159 pp., 19,45 $ (copertina morbida). ISBN 978-3-905703-32-0.
Recensione di Andrew Higgins, Traduzione di Alberto Ladavas
Col trentaduesimo volume della collana Cormarë, l’editore Walking Tree propone una serie di articoli accademici che esplorano le relazioni tra il pensiero creativo di Tolkien, le sue opere e la sua filosofia. I cinque saggi di questo breve ma valido volume traggono origine, in parte, dagli interventi tenuti al congresso “Tolkien e la filosofia” svoltosi a Modena nel maggio 2010 e organizzato congiuntamente dall’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e dall’Associazione Romana di Studi Tolkieniani.[1]
I curatori, Roberto Arduini e Claudio A. Testi, impostano il tono generale del volume con la loro introduzione (pp. 9-20) in cui citano diversi riferimenti bibliografici di studi accademici su Tolkien per dimostrare che, benché importanti argomenti filosofici presenti nelle opere di Tolkien siano stati certamente oggetto di impegno ed analisi (ad esempio: il potere, il male, la morte e l’immortalità, ecc.), vi sono stati però pochi studi accademici sul pensiero filosofico di Tolkien e sulle specifiche influenze esercitate sul suo pensiero creativo da filosofie e scuole filosofiche. Arduini e Testi supportano questa affermazione con un utile elenco di 62 studi tolkieniani che inizia con un articolo del 1956 intitolato “Escathology” (sic), scritto dall’ignoto “H.M.Y.” e pubblicato in The Student Movement,[2] e termina con il volume The Hobbit and Philosophy pubblicato nel 2012 sull’onda dei film di Peter Jackson a cura di Gregory Bassham ed Eric Bronson.
Il primo saggio del volume, “Tolkien tra filosofia e filologia” (che da solo costituisce un terzo de’l'intero libro, pp. 21-71), raccoglie un’interessante discussione e dibattito tra lo studioso tolkieniano italiano Franco Manni e Tom Shippey. La trascrizione di questo confronto cattura gli affondi dei quesiti socratici rivolti da Manni a Shippey su Tolkien e la filosofia, e le singole risposte di Shippey riflettono la sua considerevole conoscenza specialistica di Tolkien, della filologia comparativa e della storia del pensiero filosofico. Sia il dibattito generale, sia i piccoli dettagli che emergono dal dialogo, incluse le informazioni di approfondimento nelle importanti note a piè di pagina, offrono allo studioso molto materiale da esplorare. Shippey dimostra che l’assenza di esplicite citazioni della filosofia e dei filosofi da parte di Tolkien sia dovuta alla sua formazione in filologia, in particolare in filologia comparata. Il punto chiave, secondo Shippey, è che mentre la filosofia tende a concentrarsi sui grandi problemi e argomenti della vita, sull’universo e sul tutto, l’indagine filologica tende a esaminare i dettagli e i particolari. Egli argomenta questa tesi con un’intensa dimostrazione del processo filologico, molto dettagliato, che collega la parola italiana “cinque” con la parola inglese five (p. 24). Shippey riassume magistralmente la differenza di pensiero e di approccio tra i filosofi e i filologi con l’affermazione fondamentale del suo intervento: «I filosofi sono coloro che generalizzano, quelli con il telescopio. I filologi sono coloro che esaminano attentamente, quelli con il microscopio» (pp. 23-24). Un secondo punto importante sottolineato da Shippey è che molti dei temi fondamentali esplorati dalla filosofia erano per Tolkien molto personali: in molti casi egli scelse di esplorare il suo pensiero su questi temi attraverso le sue opere sub-creative piuttosto che attraverso l’autorità di ciò che è stato affermato da determinati filosofi.
Quando Manni chiede quali specifici filosofi hanno influenzato Tolkien, Shippey suggerisce tre esempi: i primi due sono Platone e Boezio, per i quali egli offre una buona disamina di diversi argomenti fondamentali che ognuno di essi ha esplorato e che si riflettono nella metafisica del Legendarium di Tolkien. Ma è il terzo filosofo suggerito da Shippey che ho trovato più interessante: Robin Collingwood, professore ad Oxford e collega di Tolkien che si occupò e scrisse anche di storia e fiabe. Shippey sottolinea che Collingwood e Tolkien insegnarono insieme al Pembroke College e che, quindi, hanno certamente discusso le loro opere nella sala comune dell’università. Tuttavia, malgrado questo stretto legame professionale, non ci sono stati molti studi accademici consistenti su questo collegamento o sull’influenza esercitata da Collingwood su Tolkien (come sempre, Shippey suggerisce utilmente agli studiosi tolkieniani di ampliare le ricerche!). Nella parte successiva del dialogo Manni e Shippey adottano un approccio più ampio riguardo alla questione dell’“influenza” su Tolkien (forse un percorso un po’ fuori strada rispetto al tema generale del libro). In questa analisi Shippey traccia un’interessante distinzione tra “influenza positiva” e “influenza per provocazione”, a cui Tolkien, secondo lui, era molto soggetto. Shippey sostiene questa idea citando infatti la reazione di Tolkien al ciclo dell’Anello di Richard Wagner, tratto dall’originale opera norrena Völsunga saga: Tolkien definì l’opera di Wagner una parodia e fu per lui una provocazione che lo spinse a scrivere una sua versione del ciclo di storie, La leggenda di Sigurd e Gudrún.
Il ruolo della filologia come vera filosofia di Tolkien è magistralmente analizzato nel secondo intervento scritto da Verlyn Flieger, “Tolkien e la filosofia del linguaggio (pp. 73-84). Flieger inizia citando l’affermazione fondamentale scritta da Tolkien nella prima bozza della sua relazione del 1939, “Sulle fiabe”: «la mitologia è linguaggio e il linguaggio è mitologia»; un’affermazione che Flieger descrive come «solo sette parole che trasmettono la convinzione più radicale di Tolkien riguardo alle parole e a ciò che esse possono fare» (p. 73). La parte restante di questo saggio esplora come la mitologia e il linguaggio operino insieme e contemporaneamente nelle opere di Tolkien. Flieger puntualizza giustamente che le idee riguardo la fusione di mito e linguaggio non erano nate con Tolkien: ella, infatti, fa risalire le loro origini a una particolare scuola di pensiero linguistica che si generò a partire dal Romanticismo tedesco del XIX secolo e che «ha trovato una collocazione nella filologia e mitologia comparata» (p. 74). Flieger riassume inoltre il vasto lavoro compiuto nel suo importante volume Schegge di luce: logos e linguaggio nel mondo di Tolkien (Marietti 1820, 2007) riguardo all’influenza esercitata dalle opere di Owen Barfield, amico di Tolkien e membro degli Inklings, sulle idee di Tolkien a proposito dell’unità di mito e linguaggio. A questo ella aggiunge l’influenza, più tarda, di Edward Sapier e Benjamin Lee Whorf riguardo la modellazione fonetica applicata ai linguaggi inventati per plasmare la natura e il realismo dei popoli che li parlano, dimostrando come «il linguaggio sia al tempo stesso creatore di fenomeni e reazione ad essi» (p. 75). Flieger, inoltre, esplora magistralmente come, nel sviluppare la sua storia delle lingue elfiche, Tolkien abbia “drammatizzato” in maniera creativa le teorie del XIX secolo sull’origine delle lingue indo-europee, l’elemento caratteristico della filologia comparativa. Tolkien realizzò il suo “dramma” concependo la storia e struttura delle lingue elfiche come se derivassero da una lingua proto-Eldarin che, attraverso il tempo e le migrazioni, fosse evoluta nell’insieme delle lingue elfiche del Legendarium, da cui Flieger cita diversi esempi per dimostrare questi suoi risultati. Ella conclude questo saggio brillantemente argomentato offrendo agli studiosi un modo veloce ed utile per contestualizzare Tolkien e il suo pensiero filosofico: «la filosofia di Tolkien era fondata sulla sua pratica, sulle sue parole, proprio come la pratica e le sue parole furono il veicolo della sua filosofia» (p. 83).
Il secondo saggio in forma di “dialogo” (pp. 85-124) è tra gli studiosi tolkieniani italiani Andrea Monda e Wu Ming 4 (lo pseudonimo di Federico Guglielmi, uno studioso tolkieniano facente parte di un collettivo di scrittori italiani noto come “Wu Ming”, che in cinese significa “senza nome”). In questo dialogo Monda e Wu Ming 4 discutono di Tolkien come filosofo specificamente cattolico. Monda puntualizza, come già ben noto, che nella sua mitologia Tolkien non ricorre mai apertamente all’uso di elementi cattolici ma, attraverso la sua mitopoiesi sub-creativa, egli esplora idee fondamentali del pensiero cattolico. Wu Ming 4 parte da questa idea concentrandosi in particolare su Tolkien come narratore di storie e suggerendo un intrigante parallelo tra Tolkien e l’uso delle parabole fatto da Cristo nel Nuovo Testamento per veicolare i suoi messaggi. Sia Monda sia Wu Ming 4 identificano la “gioia” come un tema cristiano fondamentale, che però Wu Ming 4 contestualizza come un elemento che permise a Tolkien di parlare di un Cattolicesimo «nascosto tra le righe della storia» (p. 113) supportando questa affermazione con l’esempio della svolta “eucatastrofica” al climax del Monte Fato nel Signore degli Anelli. Benché in questo dialogo vi siano analisi interessanti, penso sia meno focalizzato rispetto a quello tra Manni e Shippey: diverse volte mi sono trovato ad aver perso il filo delle argomentazioni principali mentre i due oratori affrontavano temi secondari. Benché fornisca alcune idee interessanti, a volte queste si allontanano dal tema principale di Tolkien come filosofo cattolico.
Christopher Garbowski offre un articolo illuminante su alcuni aspetti teologici del pensiero e delle opere creative di Tolkien, e del loro legame con la morte (pp. 125-144). L’ampia analisi di Garbowski ruota attorno alla sua definizione di teologia come «la fede alla ricerca della comprensione» (p. 126). Attraverso questo saggio Garbowski mostra come Tolkien, tramite le sue opere sub-creative, cercò di capire la natura della morte come una contemporanea e correlata teologia della vita. Garbowski suggerisce che, benché Tolkien non offra alcuna soluzione rivelata, nella propria “teologia della commedia” (p. 127) egli illustra creativamente differenti aspetti, o percezioni, di come la morte dovrebbe essere vista e interpretata. Garbowski sostiene la sua supposizione esplorando le diverse prospettive sulla morte nel Legendarium di Tolkien: i mortali vedono la morte come una punizione divina, mentre gli Elfi vedono la morte che è stata concessa ai mortali come “il dono di Ilúvatar”. Garbowski suggerisce inoltre, in modo affascinante, che nel modo in cui Tolkien ha caratterizzato la stasi degli Elfi nel Signore degli Anelli egli stesse esplorando l’idea cristiana per cui la morte introduce una propria gerarchia nella vita del singolo e che l’idea della morte renda la vita degna di essere vissuta (ad esempio: “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo!”). Egli contrasta la stasi degli Elfi con gli Hobbit amanti della terra e focalizzati sulla fertilità, sostenendo questo contrasto citando i numerosi bambini hobbit nati alla fine del Signore degli Anelli e le usanze hobbit di tramandarsi le tradizioni e di rinnovare la vita.
L’ultimo saggio di questo volume, scritto da Giampaolo Canzonieri, è in realtà una serie di documenti con un breve commento tratti dal periodo in cui Tolkien frequentò la King Edward’s School di Birmingham (1900-1911). Canzonieri utilizza questi documenti d’archivio per cercare di chiarire i primi studi filosofici di Tolkien. L’attuale preside della King Edward’s School, John Claughton, ha inviato ai curatori di questo volume due documenti che «forniscono un interessante spiraglio della vita scolastica di Tolkien» (p. 145). Il primo di questi, datato 1906, descrive le tipologie di classi che Tolkien avrebbe poi affrontato alla King Edward’s School: benché la parola “filosofia” non sia mai citata, il testo riporta che «i ragazzi che intendono proseguire gli studi a Oxford o Cambridge dovrebbero intraprendere l’indirizzo classico» (p. 148). La focalizzazione del corso scolastico su lingua e letteratura greca e latina indica che Tolkien sia sicuramente venuto a conoscenza di alcuni filosofi classici. Il secondo documento è un rapporto dell’Oxford and Cambridge Examination Board sulla prova d’esame di storia romana sostenuta dalla prima classe della King Edward’s School frequentata da Tolkien e Rob Gilson, membro dei T.C.B.S. Il rapporto afferma che gli studenti, nel complesso, hanno raggiunto una buona comprensione della storia romana «pur in assenza di risultati particolarmente brillanti» (p. 149). Tuttavia, Gilson emerge come uno dei migliori studenti: egli «ha mostrato di possedere una considerevole conoscenza della storia e di usarla in modo appropriato» (p. 149). Il rapporto afferma inoltre che «Tolkien ha dato segno di una capacità di giudizio più acuta e indipendente di chiunque altro. Anche il suo stile è stato più maturo, ma è sembrato non avere alcun controllo su di esso ed è diventato a volte quasi incomprensibile» (p. 149). L’entusiasmo di Tolkien viene sottolineato col fatto di essere andato spesso fuori tema e inoltre, come molti altri studenti, con l’aver commesso l’errore di fornire tutti i dettagli delle campagne di Cesare in Gallia laddove il testo d’esame chiedeva di dettagliare solamente una campagna. L’inclusione nel volume di questi due documenti d’archivio, interessanti spiragli nella vita del giovane Tolkien, è stata ben accetta, benché mi sia dovuto sforzare per intravedere un legame con l’argomento principale del volume.
Nella conferenza tenuta da Tolkien nel 1930 sull’arte di inventare linguaggi, “Il vizio segreto”, egli introdusse il vero argomento del suo saggio con un comando: «Dovete tollerare un approccio furtivo». In alcuni punti di questo volume ho avuto la sensazione che Arduini e Testi stessero usando un simile approccio “furtivo” per introdurre ed esplorare diversi argomenti ed elementi fondamentali del pensiero creativo di Tolkien sotto l’ombrello dell’apparentemente inesplorato tema di “Tolkien e la filosofia”. Tuttavia, benché molti di questi argomenti siano stati esplorati negli studi tolkieniani, credo che questo libro, così come l’altro volume esplorativo di Arduini e Testi pubblicato da Walking Tree Publishers, The Broken Scythe: Death and Immortality in the Works of J.R.R. Tolkien (2012),[3] offra agli studiosi una moltitudine di nuovi e interessanti approfondimenti per ulteriori indagini e valga la pena di essere letto.
[1] Associazione confluita poi nell’Associazione italiana Studi Tolkieniani. N.d.T.
[2] Proprio questo primo titolo, “Escathology”, è elencato con un errore di battitura. Grazie a Janet Brennan Croft e Åke Bertenstam, sono stato in grado di rintracciare questo vecchio articolo. Il titolo era in realtà “Eschatology?” e il pezzo (Student Movement n. 58 [1956], pp. 37-38) è una recensione piuttosto positiva del volume Il ritorno del Re, all’epoca appena pubblicato. L’articolo si concentra sull’importanza del ruolo di Gollum nella struttura della trama di Tolkien. Il nome completo dell’autore resta ignoto.
[3] La falce spezzata. Morte e immortalità in J.R.R. Tolkien, a cura di Roberto Arduini e Claudio Antonio Testi, Marietti 1820, Milano 2009.